sabato 26 gennaio 2019

Alan Wallace e la Mindfulness Dharma Oriented.

La Mindfulness ispirata alla psicologia buddhista

Intervista a B. Alan Wallace realizzata in occasione di un'incontro promosso dalla associazione Mindfulness Project presso l'Istituto ILTK di Pomaia. 22 maggio 2012

Alan Wallace è un importante studioso e maestro Buddhista che ha scritto e tradotto numerosi testi della tradizione Buddhista. Laureato in fisica presso l’Amherst College e con un dottorato di ricerca in studi religiosi alla Standford, Wallace dedica le sue energie allo studio della tradizione filosofica e contemplativa Buddihsta in relazione alla scienza contemporanea. Wallace è fondatore e presidente del Institute for Conscious Studies a Santa Barbara in California.


In questa intervista B. Alan Wallace tratta in modo approfondito l’essenziale e spesso mal interpretata pratica meditativa della mindfulness. La nostra scarsa comprensione del termine “mindfulness”, argomenta Wallace, ha profonde implicazioni per la nostra pratica meditativa e può allontanarci dall’obiettivo ultimo della pratica Buddhista – la liberazione dalla sofferenza e dalle sue cause soggiacenti.

Negli scorsi mesi ha dialogato con vari maestri Buddhisti riguardo alla mindfulness. Che cosa l’ha condotta ad interessarsi in modo particolare a questo argomento?

Per anni sono stato sorpreso nel constatare le discrepanze esistenti tra la descrizione della mindfulness data da molti degli odierni maestri Vipassana e dagli psicologi che ad essi fanno riferimento da un lato, e la definizione di mindfulness che troviamo nella letteratura Buddhista Theravada e Mahayana dall’altro. Quando trenta anni fa notai queste discrepanze pensai che fossero dovute alle differenze tra il Buddhismo Theravada e Mahayana, ma approfondendo la questione mi resi conto che in realtà le tradizioni Theravada e Mahayana sono in generale in accordo e che è invece la visione contemporanea sulla mindfulness che si è distaccata da entrambe le tradizioni.

In che modo le interpretazioni odierne differiscono da quelle tradizionali?

Mentre il termine mindfulness (sati) è spesso inteso come mera attenzione, le mie conversazioni e recenti studi sul lavoro di monaci importanti quali Bhikku Bodhi e Bhikkhu Analayo e Rupert Gethin presidente della Pali Text Society, mi hanno condotto a concludere che la mera attenzione corrisponde più precisamente al termine pali manasikara che è comunemente tradotto come “attenzione” o “presenza mentale”. Questo si riferisce ai primi istanti in cui prendiamo coscienza di un oggetto; secondo il Buddhismo quell’attimo prima di riconoscere, identificare e concettualizzare l’oggetto non è un fattore mentale salutare ed è eticamente neutro. Il vero significato di sati, d’altro canto, è ricordo e “non dimenticanza”. Ciò include la memoria retrospettiva delle cose del passato e in prospettiva il ricordarsi delle cose da fare nel futuro e anche la rievocazione, in un mantenimento continuo, dell’attenzione sulla realtà presente. L’opposto della mindfulness è la tendenza a dimenticare, quindi, per esempio, la mindfulness applicata al respiro implica continua e ferma attenzione al respiro. Mindfulness può essere usata per sostenere la mera attenzione (manasikara) ma in nessun luogo nella tradizione buddhista la mindfulness è equiparata a tale forma d’attenzione.

Il Buddha ha mai menzionato il termine “manasikara” nelle sue indicazioni riguardo
la mindfulness?

Non che io sappia. Il termine manasikara appare in modo rilevante nei trattati di psicologia Buddhista basati sull’Abhidhamma. Nelle indicazioni del Buddha su samatha (meditazione della calma) e vipassana (meditazione di insight), i termini sati e sampajanna appaiono frequentemente. Sampajanna è generalmente tradotto dal pali come “chiara comprensione”, ma questo tipo di consapevolezza ha sempre un aspetto legato alla riflessione: invariabilmente essa implica uno stato di monitoraggio dello stato del proprio corpo e della propria mente, a volte anche in relazione al proprio ambiente. Per questa ragione preferisco tradurre il termine come “introspezione” che implica un’osservazione in cui si discernono non solo le attività della mente ma anche quelle fisiche e verbali.

Quali sono i rischi di considerare la meditazione solamente un processo di mera
attenzione?

Quando la mindfulness è equiparata alla “pura attenzione”, questo può facilmente condurre all’errata concezione secondo la quale praticare la mindfulness non ha niente a che fare con l’etica o con l’incremento di uno stato mentale salutare e con l’attenuazione degli stati mentali non salutari. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità.
Nell’Abhidhamma in pali, dove la mindfulness è annoverata tra i fattori mentali salutari, essa non è descritta come pura attenzione bensì come fattore mentale che distingue chiaramente gli stati mentali salutari dagli stati mentali e comportamenti non salutari. Essa (la mindfulness) è utilizzata nel sostegno degli stati mentali salutari e per contrastare quelli non salutari.

Qual è dunque il ruolo della pura attenzione?

Lo sviluppo della pura attenzione è utile in molti modi diversi ed esistono ricerche in rapida espansione che ne attestano i benefici sia per disturbi psicologici che fisici, ma non è corretto metterla sullo stesso piano della mindfulness, ed è un’errore ancora più grave credere che a questo si riduca la meditazione vipassana. Se così fosse, tutti gli insegnamenti del Buddha sull’etica, su samadhi e sulla saggezza, sarebbero irrilevanti. Troppo spesso persone che ingenuamente ritengono che la meditazione si riduca alla pura attenzione respingono il resto del Buddhismo come “aria fritta”. Gli insegnamenti fondamentali vengono messi da parte al posto dei propri pregiudizi. 

Alcuni maestri affermano che la pura consapevolezza (awareness) previene automaticamente la nascita di pensieri non salutari. Si può riscontrare tale concezione nei testi?

La pura consapevolezza, in quanto calma e consapevolezza non reattiva del proprio oggetto di meditazione, ha un ruolo cruciale nella pratica di samatha, la quale allevia gli stati mentali affliggenti quali il desiderio irrefrenabile, l’avversione, la fiacchezza, l’agitazione e il dubbio. Vi sono nei testi buddhisti resoconti di persone che hanno trovato profonda e liberante consapevolezza attraverso ciò che appare essere la pura attenzione. Forse il caso più conosciuto è quello dell’asceta errante Bahiya. Dopo aver raggiunto uno stadio avanzato di contemplazione egli riconobbe di non aver ancora raggiunto la liberazione e quindi cercò la guida del Buddha. Il Buddha gli disse: “In ciò che è visto ci sia solo ciò che è visto, in ciò che è udito ci sia solo ciò che è udito, in ciò che è percepito ci sia solo ciò che è percepito, in ciò che è conosciuto ci sia solo ciò che è conosciuto. Così dovrai praticare”. Bahiya immediatamente raggiunse la liberazione. In base a questo resoconto si potrebbe facilmente concludere che la pura attenzione è tutto ciò di cui abbiamo bisogno nella meditazione di consapevolezza. Dobbiamo però ricordarci che il caso di Bahiya è del tutto eccezionale. Quando incontrò il Buddha, aveva già raggiunto un livello molto alto di maturità spirituale, tale da necessitare solo queste istruzioni essenziali per purificare la sua mente da tutte le afflizioni mentali. Per tutti noi la ricca diversità di teorie e pratiche nel Buddhismo può essere di grande aiuto. La pura attenzione può essere di grande aiuto in questo ed in determinate circostanze può anche prevenire il sopraggiungere di pensieri non salutari! Per esempio le meditazioni per lo sviluppo delle quattro sublimi virtù di gentilezza, amorevolezza, compassione, gioia compartecipe ed equanimità, sono tutte praticate con la mindfulness ma non con la pura attenzione. La pura attenzione non è una pratica completa e da sola può essere di aiuto ma anche molto limitante.

Le differenti definizioni della mindfulness hanno un’implicazione pratica? O si tratta
solo di una questione semantica?

La questione supera notevolmente l’aspetto semantico. Nell’inglese di tutti i giorni il termine “mindfulness” significa semplicemente essere attenti o vigili. Il termine “sati” ha una connotazione molto più ricca, quindi a coloro che intendono praticare la meditazione Buddhista si consiglia di acquisire una comprensione quanto più larga e approfondita del termine e degli altri termini connessi basandosi sulle fonti più autorevoli a disposizione. Altrimenti la meditazione Buddhista si sminuisce rapidamente in una vaga concezione di “essere qui ed ora” nella quale la straordinaria profondità e ricchezza delle tradizioni meditative Buddhiste vengono perdute.

Sarebbe d’aiuto dare una definizione unica del termine mindfulness?

Nel rispetto dell’integrità di ogni singola tradizione sarebbe un errore comprimere i diversi significati in un unico stampo. È importante rimanere sensibili alle differenze tra le diverse scuole, ma per il momento, visto che i discorsi attribuiti al Buddha e i commentari concordano sul significato del termine mindfulness, questo dovrebbe essere riconosciuto dai Buddhisti di ogni scuola.
Il Buddha definì mindfulness, o sati, come la facoltà di rievocare eventi passati. Nel dialogo tra il Buddha e Re Milinda, l’arhat Nagasena commentò che la mindfulness permette di distinguere tra tendenze salutari e non salutari, permettendo a colui che contempla di coltivare le prime e di respingere le ultime. Nella classica opera del quinto secolo Il cammino della completa purificazione, Buddhaghosa, il più autorevole commentatore della tradizione Theravada, inizia la spiegazione evocando la stessa definizione data dal Buddha e afferma che è la mindfulness che permette di rievocare gli eventi passati. Scrive Buddhaghosa, – la caratteristica della mindfulness è di essere “non
oscillante”, in altri termini la mente è fermamente concentrata sull’oggetto della propria attenzione -. La sua proprietà è “non cedevole”, indicando quindi che la mindfulness permette di mantenere l’attenzione senza dimenticanze. Le sue manifestazioni sono la “vigilanza” o l’essere “faccia a faccia con l’oggetto” implicando quindi che “la corda della mindfulness” tiene l’attenzione fermamente salda sull’oggetto scelto, sia che l’oggetto in questione sia unico e relativamente stabile, ma anche se si tratta di una successione di eventi correlati. La base della mindfulness è la “forte osservazione”; tale descrizione ne suggerisce le qualità di discernimento che sono cruciali nell’applicare la mindfulness al corpo e agli altri oggetti dei Quattro fondamenti della consapevolezza. In sintesi, commenta Buddhaghosa, la mindfulness dovrebbe essere vista come un traguardo in quanto condizione dell’essere situata nell’oggetto e come un guardiano che controlla le porte della percezione. Sulla base di questo classico ed autorevole resoconto possiamo facilmente vedere perché la mindfulness è essenziale per il samatha e vipassana ed in generale per la pratica spirituale. Tradizionalmente samatha è il primo modo per coltivare la mindfulness, mentre nella pratica vipassana si applica la mindfulness e la saggezza (pañña) all’esame del corpo, della mente e di altri fenomeni.
Nel ruolo psicologico di rievocazione, sati è una facoltà mentale della vita quotidiana. In quanto fattore mentale salutare, nel satipatthana (Fondamenti della consapevolezza), la mindfulness è applicata alla contemplazione della natura del corpo, delle sensazioni, degli stati mentali, e dei fenomeni in genere. Alcuni degli esercizi nel satipatthana, come la contemplazione delle parti del corpo, o per esempio la pratica di percorrere mentalmente le sensazioni fisiche, non possono essere fatti con la pura attenzione. In tutti i casi, la mindfulness nella pratica spirituale è applicata con intelligenza e discernimento, spesso osservando i fenomeni all’interno delle categorie Buddhiste quali i cinque aggregati e così via. Questo è evidente nel principale discorso del Buddha su satipatthana, che va ben al di là della pura attenzione.

Qual è la differenza tra mindfulness e retta mindfulness? Esiste una mindfulness erronea?

Un cecchino nascosto nell’erba che aspetta di sparare al proprio nemico può essere tranquillamente attento a ciò che accade ad ogni istante intorno a lui, ma poiché la sua intenzione è di uccidere sta praticando una mindfulness erronea. In realtà sta praticando la pura attenzione senza una componente etica. Di norma la giusta mindfulness deve essere integrata con sampajañña (introspezione che implica chiara comprensione) ed è solo quando queste due sono applicate insieme che la retta mindfulness può raggiungere il suo scopo. Nello specifico, nella pratica dei Quattro fondamenti della consapevolezza, la retta mindfulness deve manifestarsi nel contesto dell’intero Nobile Ottuplice Sentiero. Come ho commentato prima, questa deve essere guidata da una retta comprensione, motivata da una retta intenzione, radicata nell’etica, e coltivata insieme al retto sforzo. Senza la retta comprensione e la retta motivazione si potrebbe praticare la pura attenzione senza che essa si sviluppi nella retta mindfulness. Pertanto, la pura attenzione in nessun modo riassume il significato completo di vipassana ma rappresenta solo la fase iniziale dello sviluppo meditativo della retta mindfulness.

C’è una tendenza in certi ambienti a favorire la pratica di vipassana piuttosto che la
pratica di samatha. Potrebbe dire qualcosa a questo riguardo?

Il termine “samatha” tradotto come tranquillità o quiescenza meditativa, si riferisce ad un ampio spettro di pratiche per il raggiungimento di samadhi, ovvero l’attenzione molto acuta o concentrazione univoca. Sia la mindfulness sia l’introspezione fanno parte di tutte le pratiche di samatha e la consapevolezza che si raggiunge attraverso tali pratiche può essere applicata a qualsiasi tipo di oggetto, piccolo, grande, semplice, complesso, relativamente stabile o mutevole. La pratica di samatha è spesso trascurata o emarginata in molte scuole Buddhiste contemporanee tra le quali Zen, Theravada, e il Buddhismo Tibetano. Con la sua enfasi su “l’illuminazione improvvisa” la tradizione Zen non insegna samatha come una pratica separata, piuttosto la incorpora nella pratica zazen dello “stare seduti” e nelle meditazioni sui koan.
La stessa tendenza sembra essere in voga nella tradizione vipassana contemporanea che toglie enfasi a samatha, ma nella letteratura tradizionale Mahayana e Theravada la pratica di samatha ha un ruolo centrale nella consueta triade etica, equilibrio mentale (che è il significato più ampio del termine “samadhi”), e saggezza. Inoltre il ventaglio delle pratiche Buddhiste insegnate nella categoria samadhi è più ampio del mero sviluppo di una concentrazione univoca. Queste pratiche sono dirette allo sviluppo di stati di salute mentale e di equilibrio eccezionali, e tutte le meditazioni introspettive sono praticate in modo ottimale proprio su questa base. Senza la mindfulness l’equilibrio mentale non può essere sviluppato. E senza la stabilità e la vivida attenzione ottenuta attraverso la pratica di samatha le pratiche di saggezza Buddhista sono destinate ad essere inficiate dalla agitazione mentale, dalla ottusità e da altre forme di disturbo. L’etica e l’equilibrio mentale si sostengono reciprocamente proprio come samatha e vipassana.

La pratica della mindfulness è normalmente associata alla tradizione Theravada. Qual è il suo ruolo nella pratica Vajrayana?

La mindfulness, in quanto facoltà di sostenere una continua attenzione sull’oggetto scelto, è indispensabile per tutte le forme di meditazione. Nei vari esercizi di visualizzazione inclusi nelle meditazioni Vajrayana, la mindfulness permette di sostenere tali immagini con chiarezza e stabilità. Vajrayana include anche le meditazioni Mahamudra e Dzogchen e qui ancora una volta l’attenzione stabile, luminosa e non reattiva è fortemente sottolineata come lo è nello Zen. Ma la base per queste pratiche di saggezza è ancora nel coltivare un equilibrio mentale includendo l’attenzione calma e vivida.
Nelle autentiche pratiche Mahamudra, per esempio, si è formati inizialmente agli insegnamenti delle Quattro Nobili Verità incluse le pratiche dell’etica, dell’equilibrio mentale e della saggezza. In seguito ci si inoltra negli insegnamenti Mahayana, specialmente in quelli dell’ideale del Bodhisattva, gli insegnamenti della “Perfezione della saggezza” sulla vacuità e sul sorgere dipendente, e sulla natura di Buddha. Su questa base si è iniziati al Buddhismo Vajrayana e alle sue specifiche pratiche per la trasmutazione del proprio corpo, delle proprie parole e della propria mente nel corpo, nelle parole e nella mente di un buddha. Infine si è formati nella specifica prospettiva, meditazione e modo di vita della tradizione Mahamudra. La meditazione implica unaradicale forma di “non fare” nel quale si riposa in una consapevolezza non strutturata, lasciando andare l’attaccamento a tutta una serie di sensazioni apparenti, ricordi e pensieri. Come conseguenza di tale pratica, tutte le esperienze gradualmente si manifestano in aiuto al proprio risveglio spirituale ed infine tutti i fenomeni sono percepiti come pura espressione della coscienza primordiale, ovvero della natura di Buddha. La prima fase nella meditazione Dzogchen, conosciuta come “breakthrough”, è molto simile al Mahamudra e a prima vista sembrano identiche alla pura attenzione praticata dalle moderne tradizioni Vipassana e Zen. Ma come abbiamo sottolineato nella discussione sulla retta mindfulness il contesto della propria pratica è determinante e i metodi che sembrano apparentemente uguali possono avere profonde e soggiacenti differenze. Tradizionalmente i monaci Zen, per esempio, si formavano in ambito etico studiando per anni i grandi trattati della loro tradizione prima di dedicarsi alle meditazioni su un singolo oggetto. Lo stesso è spesso vero nel Buddhismo Theravada e nel Buddhismo Tibetano. Ognuna di queste tradizioni propone una pratica di meditazione all’interno del contesto della propria visione del mondo e profondamente radicato nella prospettiva Buddhista.

Quali sono alcuni tratti specifici nella visione del mondo nel Mahayana e nel Vajrayana che rendono il loro uso della mindfulness diversa rispetto alla tradizione Theravada?

La retta mindfulness emerge solo nel contesto della retta visione e della retta intenzione e ognuna di queste scuole Buddhiste ha la propria interpretazione di questi due ultimi fattori del Nobile Ottuplice Sentiero. Nel Buddhismo Theravada la retta visione si concentra sui tre temi dell’impermanenza, della sofferenza e del non-sé. La retta intenzione è una motivazione per praticare basandosi sul riconoscimento della natura e delle cause della sofferenza e sul desiderio di raggiungere la liberazione definitiva da tutte le afflizioni mentali che sono alla radice della sofferenza.
Alcuni maestri vipassana contemporanei enfatizzano raramente la retta visione o la retta intenzione, ed io credo che sia improbabile che la pratica della sola mindfulness conduca a realizzazioni trascendenti. Come ho detto in precedenza, se la mindfulness nella sua accezione odierna fosse tutto ciò che è necessario per raggiungere la liberazione, allora il resto degli insegnamenti del Buddha sarebbero privi di motivazione. Nel Buddhismo Mahayana la retta mindfulness è praticata insieme alla visione della vacuità, dell’originazione interdipendente e della natura di Buddha, e con l’intenzione di raggiungere la perfetta illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. Senza una tale visione e motivazione si afferma che la pratica della mindfulness e tutte le relative forme di meditazione non condurranno alla Buddità. Nella tradizione Vajarayana la retta visione include la “visione pura” che permette di percepire tutti i fenomeni come espressione della coscienza primaria; la retta intenzione è la motivazione altruistica di raggiungere l’illuminazione il più presto possibile per il beneficio di tutti gli esseri senzienti. Questa è la stessa motivazione che troviamo nella pratica Mahayana, ma con un maggiore senso di urgenza.
In ognuno di questi casi la mindfulness trova uno specifico sapore, proprio come quando viene praticata all’interno di una visione materialista e con la motivazione utilitaristica di alleviare lo stress e trovare maggiore felicità esclusivamente in questa vita. Quando la pura attenzione è praticata all’interno del contesto della visione moderna e materialista, non c’è ragione di pensare che essa avrà gli stessi risultati di una pratica inserita nel contesto del Buddhismo Theravada, Mahayana, o Vajrayana.
Negli ultimi secoli il Buddhismo ha attraversato una sorta di “Riforma protestante” con il declino del Buddhismo monastico e con la diffusione della meditazione tra i Buddhisti laici. È meraviglioso che al giorno d’oggi molte persone pratichino la meditazione Buddhista quotidianamente. Ma è importante non sminuire il valore di anni dedicati allo studio e alla pratica della meditazione come la mera vocazione di una singola persona. In fondo, chi di noi affiderebbe le proprie cure dentistiche ad una persona che ha solo fatto una serie di workshop dentistici e che ha lavorato per circa un’ora al giorno? Così dovremmo essere ancora più cauti nell’affidare le nostre menti a maestri di meditazione che non hanno alle spalle anni di formazione professionale nella teoria e nella pratica della meditazione. Tutto dipende dalla visione e dalla motivazione che abbiamo rispetto alla meditazione. Se ciò che ci interessa è una sorta di terapia meditativa che ci aiuti ad allentare lo stress, o ad affrontare problemi psicologici personali e condurre una vita più equilibrata, non abbiamo bisogno di un maestro di meditazione altamente istruito. Ma se i nostri obiettivi sono più alti – liberarci dal ciclo dell’esistenza e raggiungere l’illuminazione – allora dobbiamo affidarci a coloro che hanno fatto anni di formazione nella teoria e nella pratica della meditazione. Tradizionalmente i monaci hanno avuto un ruolo determinante in questo senso e mi auguro che continueranno ad averlo anche in futuro. Ma perché ciò possa accadere i monaci avranno bisogno del sostegno dei Buddhisti laici, proprio come accadeva in passato.

Con il Buddhismo “part-time” delle nostre comunità occidentali abbiamo meno probabilità di esprimere dei maestri illuminati?

Se avessimo solo scienziati che svolgono la loro professione “part-time” allora nessun ramo della scienza si sarebbe sviluppato all’odierno livello di sofisticazione. Allo stesso modo, se avessimo solo medici e psicoterapeuti part-time la nostra salute mentale e fisica sarebbe ben peggiore. Lo stesso vale se immaginiamo un mondo con meccanici, elettricisti, contadini ed insegnanti che lavorano part-time. Se lasciassimo tutte le principali professioni nelle mani di coloro che le svolgono in modo amatoriale, la civiltà moderna ne sarebbe profondamente impoverita.
Il cammino verso il risveglio spirituale è la maggiore sfida tra le attività umane ed implica le più profonde trasformazioni per passare da una creatura misera e disillusa ad un saggio illuminato. Se vogliamo che ci siano maestri illuminati nella nostra moderna società, allora coloro che intendono dedicarsi con tutto il cuore a questo cammino – percorrendo o meno la via monastica – dovrebbero ricevere tutto il sostegno possibile. Questo sarebbe il nostro maggior dono alle generazioni future.

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