lunedì 9 marzo 2020

La conchiglia, simbolo della Deep Mindfulness


 La conchiglia, simbolo della Deep Mindfulness


In un tempo in cui la parola Mindfulness da una parte si diffonde ma dall’altra troppo si banalizza, sentiamo ora l’esigenza di identificare più precisamente  i nostri percorsi per salvaguardare la professionalità e la qualità dell’insegnamento che viene trasmesso. Abbiamo dunque dato al nostro lavoro un nuovo logo e una nuova definizione: Deep Mindfulness.  
Ciò che qualifica la Deep Mindfulness è la consapevolezza che permette di vedere ciò che è difficile vedere: la principale causa che produce la sofferenza negli esseri umani è l’identificazione con l’Io o Identità; la pratica della Deep Mindfulness mira da una parte a renderla sana ed equilibrata e dall’altra a superarla, usandola, senza attaccamento ai suoi condizionamenti, per scoprire nuove possibilità della mente che portano alla pacificazione e alla saggezza.
La Deep Mindfulness può essere definirla una Mindfulness Dharma oriented non per aderire ad un credo ma perché siamo profondamente convinti che la psicologia buddhista della liberazione abbia molto da insegnare al mondo occidentale. Quando ci si riferisce al Dharma si intende la ricerca di una visione chiara, scevra dai condizionamenti della mente, in grado di svelare il modo in cui le cose esistono realmente e quindi la effettiva natura della Realtà. Il Dharma proviene dagli  insegnamenti delle diverse tradizioni spirituali che mirano allo sviluppo della saggezza e delle qualità dell'essere, quali l'amore altruistico e la compassione, tuttavia il nostro approccio è laico e scevro da qualsivoglia connotazione fideistica: vivere in conformità del Dharma significa vivere in armonia ed equilibrio con il mondo e con gli altri..
Abbiamo scelto il simbolo della conchiglia che, nella iconografia classica, rappresenta la “l'insegnamento del Dharma, che si espande indifferentemente in ogni direzione” per indicare quale sia il nostro modo di interpretare la pratica interiore: intercettare i punti cardine del Dharma buddhista espressi nei tre veleni da cui liberarsi (attaccamento, avversione e ignoranza) e nelle quattro qualità da sviluppare (amorevole gentilezza, gioia compartecipe, compassione e equanimità) per riportarli nella vita e nella esperienza quotidiana e diffondere così quella attitudine all’autenticità, all’etica e alla presenza mentale che sono potenti fattori di miglioramento delle qualità umane e quindi del benessere personale e collettivo.
Ciò che cerchiamo di sviluppare, attraverso la Deep Mindfulness, non sono solo un metodo e delle competenze ma soprattutto quelle qualità dell’essere che attengono alla relazione con se stessi e alle relazioni interpersonali.
 Il logo Deep Mindfulness qualificherà i corsi tenuti da insegnanti formati alle nostre Scuole in quanto la certezza di un metodo è necessaria per tutelare l’autenticità della sua applicazione. 
                                                                                        Il team della Mindfulness Project


Mindfulness Project è stata la prima associazione in Italia a sviluppare la ricerca e la formazione nel campo della Mindfulness attraverso la sua ultradecennale Scuola di counseling transpersonale, il Mindfulness Compassion Master, il metodo Mindfulness Compassion Experience, e il Mindfulness Education progetto di prossima realizzazione rivolto agli insegnanti della Scuola.



giovedì 2 gennaio 2020

La Deep Mindfulness e le qualità dell’essere


















di Antonella Nardone 

L'insegnante di Mindfulness, sia che si definisca istruttore, facilitatore, amico spirituale o guida è un riferimento per la consapevolezza del praticante che gli accorda la sua fiducia: in tutti i casi egli si prende la responsabilità di sostenerlo e di aiutarlo a lavorare sulla mente. Il suo compito, se svolto con generosità, interesse, onestà intel­lettuale e amorevole gentilezza, diventa una grande opportunità e una risorsa per la crescita interiore dell’altro quanto della propria.

Socrate indica la via dell’in­segnante e nel dire "l’insegnante mediocre racconta, il bravo insegnante spiega, l’insegnante eccellente dimostra, il Maestro ispira" distingue diversi livelli di insegnanti che non derivano dai diplomi ottenuti ma dalla qualità del loro "essere".

L’insegnante di consapevolezza, che opera nel campo della deep Mindfulness, che sia psicologo o counselor, non si accontenta di essere solo un professionista certificato anche se ciò costituisce una prima garanzia: in realtà  il certificato non garantisce che l'insegnante sia  “più avanti” o che abbia le qualità di un Maestro, ma indica semplicemente che egli ha già esplorato il territorio della ricerca interiore e che ha il coraggio di esporsi garantendo un'attitudine onesta e un etica sincera perciò:
- è qualcuno che si propone di trasmettere non ciò che è scritto sui libri ma ciò che egli ha
ef­fettivamente capito e sperimentato nella propria vita;
- è qualcuno che cerca di rimanere coerente con i principi che insegna, che sa aprirsi a se stesso e quindi all’altro, che conosce e usa la medi­tazione e l’attenzione consapevole;
- è qualcuno che, nella relazione con l’altro, ha come direzione il perseguimento della azione di­sinteressata e delle virtù fondamentali dell’amorevole gentilezza e della compassione, della non invidia e dell'equanimità.

Certamente anche l’insegnante può cadere, ma l’importante è che ne sia consapevole, che lo sappia riconosce­re e che faccia del suo meglio per riprendere la giusta direzione; egli dovrebbe saper rimanere sempre aperto a mettersi in discus­sione anche quando sono gli studenti stessi a metterlo alla pro­va; è anche fondamentale che mantenga aperta una supervisio­ne e un confronto con qualcuno di cui si fida per non rischiare l’autoreferenzialità.

Il lavoro dell’insegnante di consapevolezza che promuove la presenza mentale si iscrive nel cam­po del sostegno allo sviluppo personale e alla crescita interiore;  anche se vi sono possibili applicazioni terapeutiche tipiche dell'azione dello psicologo o dello psicoterapeuta, la professione  più vicina è quella del Mindfulness counseling inteso così come Carl Rogers nel 1951 ha definito la relazione d’aiuto:“una relazione in cui almeno uno dei due protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo sviluppo, la maturità ed il rag­giungimento di un modo di agire più adeguato e integrato. L’altro può essere un individuo o un gruppo.”

Il compito dell’insegnante di Mindfulness, come quello del counselor, è dun­que quello di valorizzare le risorse personali del soggetto nel momento in cui le vive, la mag­giore possibilità di espressione di tutte le sue parti, da quella più istintuale ed emotiva fino a quella più intuitiva ed elevata; un la­voro che si svolge attraverso una relazione umana consapevole ed intenzionale, in cui l’operatore sappia integrare le qualità del cuore con le competenze e soprattutto sappia vivere la relazione nella presenza e nel contatto non giudicante con quello che il praticante porta con sé.

Per poter trasmettere un insegnamento egli deve aver saputo investigare e sviluppare la capacità di riflettere sui propri stati in­terni, affettivi, cognitivi ed emotivi, capacità indispensabile per poter comprendere lo stato mentale dell'altro, evitando di confonderlo con  il proprio mondo interno: un monitoraggio che regola il comportamento specifico di tutte le relazionie di cura quanto della relazione Mindfulness.

Il modello di relazione studente-insegnante che ha le sue radici nella psicologia buddhista, è centrato sull’accettazione empatica dello studente, di ciò che egli vive sul piano psicofisico e quindi nei tre livelli di corpo energia e mente, nel completo rispetto del­la soggettività dell’esperienza; una accettazione equanime e non giudicante volta a promuove la crescita interiore, attraverso una matura ed autentica capacità di relazionarsi con se stessi e con la realtà presente dell’esperienza che si sta vivendo.

Secondo l’approccio Deep Mindfulness l’intenzione dell’insegnante sarà rivolta all'utilizzo delle risorse di base che producono il benessere individuale, promuovendo nel contempo il processo evolutivo della coscienza verso l’apprendimento e la realizzazione di quelle condizioni mentali non egoiche che sono il fondamento comune ai diversi orientamenti di crescita interiore: equanimi­tà e compassione, tolleranza e gioia, concentrazione e pace menta­le, apertura e rispetto della vita, accettazione della morte, capacità di comprendere la natura transitoria dell’esperienza, generosità, assenza di dogmatismo e chiarezza etica.

L’insegnante deve coltivare in se stesso delle qualità personali per poterle trasmettere ai propri studenti quali:
-  la consapevolezza, ovvero essere in contatto con il proprio organismo psicofisico, con i pro­pri condizionamenti e con i propri stati emotivi,
- l'autenticità per insegnare solo ciò di cui ha esperienza, chiarezza della propria direzione e di quella verso cui vuole portare lo studente,
- il rispetto della dimensione etica nella propria vita personale e coerenza fra quanto insegna e la propria attitudine nella vita.

Nella relazione con lo studente, chi guida deve mostrare piena affidabilità e rispetto della parola data; saper controllare la propria reattività, essere vigile sulle proprie tendenze egoiche, es­sere generoso e disinteressato, coltivare le qualità dell’autenticità, della coerenza e della umiltà, avere attenzione per lo studente e per la sua evoluzione, assicurare una competenza tecnica e, infine, essere testimone di una seria e convinta pratica personale della meditazione di consapevolezza.

Insegnare consapevolezza è il lavoro più sublime che si possa fare, è un grande onore e una grande responsabilità e, come dice­va Paolo Menghi:
“chi scopre di essere utile è felice; aiutare le persone a crescere non è un sacrificio ma è entusiasmante, per ogni essere umano il piacere di veder evolvere le persone non ha uguali; quando l’uomo si ren­de conto di rappresentare un aiuto alla crescita altrui è soddisfatto e non c’è guadagno che possa competere con quella soddisfazione.”                                 

(tratto da Antonella Nardone,Yoga Mindfulness, la mente nel corpo, editore Armando -  Roma 2019) 

lunedì 8 aprile 2019

Nel conflitto, l'Amorevole Gentilezza


Esiste la possibilità di guardare ai conflitti lasciando andare le cause e i meccanismi mentali che li generano per sviluppare le qualità del cuore? E' la teoria e la pratica che la Mindfulness Dharma Oriented ci invita a riportare nella vita quotidiana. E' la possibilità per tutti coloro che sono interessati e migliorare la qualità delle loro relazioni.

Quando pensiamo al conflitto ci riferiamo al fenomeno che si verifica quando due parti contrastanti si incontrano generando una tensione opposta: sul piano psicologico sono conflitti fra parti di sé antagoniste e sono i conflitti interpersonali. Come possiamo affrontarli? Ci sono tanti modi elaborati da diverse correnti di pensiero: quello che vogliamo esplorare in questa sede è l'applicazione dell'Amorevole gentilezza, quale attitudine di profonda accettazione della realtà. L'amorevole gentilezza, insieme alla compassione, alla gioia compartecipe e alla equanimità, è una delle quattro qualità, dette incommensurabili, centrali nella psicologia buddhista e nella Mindfulness.

Cambiare punto di vista
Di fronte a un conflitto, nella maggior parte dei casi, il nostro sentire istintivo è che la causa sia nell'altro o nelle circostanze avverse: ciò non è sbagliato, ma solo parziale, in quanto essendo in un campo squisitamente relazionale non può non esserci anche una nostra parte nel problema che ci si pone davanti. E, noi ci siamo sotto due punti di vista: quello della responsabilità e quello del modo in cui viviamo il conflitto stesso.
E' di questo secondo aspetto che ci vogliamo occupare in quanto ci appare risolutivo non tanto del problema in sé ma piuttosto nella riduzione del disagio psichico che esso può generare, ma soprattutto nel cogliere l'opportunità che sempre la vita ci offre in contropartita delle prove a cui ci sottopone. E, per chi è interessato ad accrescere la propria consapevolezza, i conflitti, se utilizzati in questo senso, possono diventare una grande opportunità.
Poniamo il caso in cui il conflitto non sia stato generato da noi e che perciò ci appaia irrisolvibile, e focalizziamoci invece sul nostro sentire e quindi sul modo in cui lo viviamo esplorando la possibilità di abbandonare l'aspettativa di risolverlo. E proviamo ad analizzare cosa accade dentro di noi. Ci accorgeremo di sentire una tensione forte, poco sostenibile che chiede prepotentemente di essere utilizzata per risolvere il che problema che l'ha generata. Ora questa tensione è sostenuta da un surplus di energia che è prodotta dall'attrito che si forma fra le due parti che confliggono (che siano due parti interne o parti di una relazione).

L'uso dell'Attrito
Infatti, come in natura, quando due parti in contrasto si scontrano creano attrito, generando una energia tanto più forte quanto più intenso e insolubile è il conflitto che ne è la causa. Questa energia sarà comunque fonte di un movimento interno o esterno: sta al soggetto scegliere quale direzione darle. Se la sua mente è fortemente condizionata dai meccanismi automatici di difesa dell'Io-Mio, l'energia dell'attrito andrà a sostenere reazioni automatiche, se invece si tratta di una mente più libera il soggetto potrà scegliere comportamenti più virtuosi.
In un esempio pratico, un attacco verbale può provocare un pungo e scatenare una rissa oppure risolversi in un sorriso derivante da un processo di consapevolezza al centro del quale ci sono contemporaneamente: il sentire il proprio disagio, la com-prensione delle ragioni dell'altro e l'accettazione aperta del conflitto in atto. Nella Mindfulness questo processo si chiama Amorevole gentilezza.

L'Amorevole gentilezza per la liberazione della mente
L'amorevole gentilezza è una profonda accettazione di noi stessi, dell'altro e della sofferenza di entrambi; è non dare spazio a quella parte di noi che vorrebbe, vendicarsi, rispondere oppure fuggire, essere consolata, cambiare la situazione: l'immagine della mente amorevole è quella di qualcuno che nel massimo del dolore sappia aprire il cuore ad un sorriso. E' una trasformazione radicale del nostro modo di vivere la relazione con se stessi e con gli altri. E' una profonda crescita interiore verso la saggezza. Non è facile attivare l'Amorevole Gentilezza, serve molta energia; ecco allora che le situazioni di conflitto ci vengono in soccorso fornendoci un prezioso surplus di energia che può essere utilizzato per scardinare i meccanismi della mente e quindi per liberarla: ciò che non può avvenire nella confort-zone, può così avvenire nel pieno della tensione se sappiamo utilizzare l'energia dell'attrito.
Se ci pensiamo bene a volte, inconsapevolmente, siamo proprio noi stessi a costruirci situazioni difficili, non per stare più tranquilli ma per un impulso dell'anima a liberarsi dai condizionamenti dell'attaccamento e dell'avversione ...
D'altra parte è esperienza comune l'osservazione che, di fronte momenti difficili della vita alcune persone ne sono devastate, altre rigenerate. Il punto è dunque: come fare a trasformare l'energia dell'attrito che deriva dal conflitto per liberarci invece che per aumentare la sofferenza di quella parte di noi che vorrebbe che quel conflitto e quell'attrito non ci fossero?

Il processo dell'Amorevole Gentilezza
La pratica dell'Amorevole Gentilezza nella relazione conflittuale non è assolutamente facile in quanto sono messe in gioco emozioni come la rabbia, la paura o la frustrazione che sono cariche di energia reattiva, poco gestibile. Tuttavia, se prima di far scattare la reazione automatica, riusciamo a prenderci un tempo, e se dietro al conflitto c'è una reale intenzione di incontrare l'altro, possiamo attivare quelle azioni introspettive che potranno sostenere il processo trasformativo.

Riportare la mente alla presenza.
In presenza di un conflitto è facile che la mente divaghi per elencare ossessivamente e sostenere tutte le nostre ragioni: è un enorme e inutile dispendio di energia che ci impedisce di essere in contatto con noi stessi e con quello che proviamo. E' importante dunque iniziare il processo introspettivo ritrovando la presenza, concentrandoci qualche minuto sul respiro.

L'indagine.
Se siamo in contatto con noi stessi possiamo ora provare a sentire e riconoscere l'emozione che ci abita: “rabbia... paura... di cosa...? cosa sto difendendo...? da cosa mi sento minacciata...?”

L'accettazione di se stessi.
Se quello che troviamo non ci piace è bene evitare di rimanere intrappolati in un giudizio negativo sui nostri stessi sentimenti che ci porterebbe inevitabilmente ad una fuga o ad agire l'aggressività.

L'osservazione.
Possiamo ora rivolgere lo sguardo verso l'altro per percepire sul piano sottile l'emozione che lo abita e le sue ragioni, ponendo le medesime domande: “rabbia... paura... di cosa.. ? da cosa si sta difendendo...? da cosa si sente minacciato...?”

L'accettazione dell'altro.
Prendere atto, senza giudicare, ciò che vediamo nell'altro

La motivazione.
A questo punto dobbiamo prendere una decisione: cosa vogliamo realmente che accada? Dobbiamo scegliere se cercare la pacificazione, la fuga o il mantenere acceso il conflitto... Ad aiutarci a prendere questa decisione c'è solo la direzione etica che guida il ricercatore sincero, senza la quale questo discorso rischierebbe di essere manipolatorio. L'obbiettivo non è “cosa mi conviene di più per sostenere l'IO-MIO” ma è “cosa è giusto fare per servire la Verità e la Benevolenza?”

L'apertura.
Se decidiamo di perseguire la pacificazione dobbiamo esprimere l'azione più difficile: aprirci e renderci vulnerabili, rinunciare a difendere noi stessi per entrare in empatia con l'altro. Per fare questo è necessaria una forza interiore, un perno che possa sostenerci, se la nostra identità fosse troppo fragile, l'azione di apertura, che è anche una resa, sarebbe insostenibile. Tuttavia piccoli e graduali tentativi possono essere fatti da tutti, per saggiare fino a che punto possiamo spingerci...

L'espressione.
E' l'atto finale che mettiamo in campo, per rivolgerci all'altro consapevolmente, con amorevole gentilezza, allineando la nostra motivazione con le parole che pronunceremo e le azioni che compiremo. Non è detto che questo processo sani il conflitto, anche se ha buone probabilità di farlo, ma avrebbe sicuramente un grande vantaggio: il conflitto invece di produrre il suo potenziale distruttivo aiuterebbe la nostra crescita interiore verso la liberazione dai condizionamenti della mente, e sarebbe un passo verso l'eliminazione della sofferenza “non necessaria” in noi stessi e negli altri.

Antonella Nardone


Vocabolario Mindfulness Dharma Oriented

I quattro incommensurabili (Bramaviara)
Con il termine Brahmavihāra nel Buddhismo si indicano quattro qualità o stati mentali altamente desiderabili, detti i quattro incommensurabili o le quattro forme del vero amore. Letteralmente il termine significa “Dimore Divine”: nella misura in cui riusciamo a generare in noi questi stati mentali e a stabilirci in essi, dimoriamo presso Dio, siamo come in paradiso, ma non dopo la morte in una ipotetica vita futura, ma proprio qui e ora mentre viviamo la nostra vita quotidiana. Come tutti gli stati mentali anche le quattro dimore divine dipendono in ultima analisi da noi e non dalle circostanze. Questo significa che se la nostra mente è sufficientemente allenata possiamo imparare a generare in noi questi stati indipendentemente dalle circostanze e anzi possiamo imparare a portarli proprio nelle situazioni difficili della nostra vita.
Questi quattro stati mentali sono: Mettā, Muditā, Karunā e Upekkhā.
Mettā è la gentilezza amorevole, l'amore e la benevolenza senza discriminazione che si irradia su tutti e che desidera il bene e la felicità dell'altra persona senza chiedere nulla in cambio.
Muditā è la gioia compartecipe, la gioia altruistica, la capacità di partecipare alla gioia altrui, l'opposto dell'invidia. Quando accediamo a questo stato mentale realizziamo che la felicità delle persone intorno a noi è la nostra stessa felicità: come posso essere felice se intorno a me ci sono persone infelici? Muditā è offrire gioia all'altra persona e considerare la gioia altrui come la propria.
Karunā è la compassione. Compassione non è commiserare l'altro, compatirlo, averne pietà, tutti atteggiamenti che sottendono un giudizio, che tendono a mettere l'altro in una posizione di inferiorità rispetto a noi, ma è la capacità di vedere e comprendere la sofferenza dell'altro, di partecipare al dolore altrui. Karunā, che come tutti i Brahmavihāra è una forma di amore, è la capacità di riconoscere la sofferenza nelle persone che amiamo e la capacità e il desiderio di alleviare questa sofferenza. Questo ci porta ad aprirci all'altro, a sentire la connessione con lui, a renderci conto che la sofferenza accomuna tutti gli uomini, al di là della facciata che mostrano. Se siamo nell'odio non facciamo altro che distruggere noi stessi.
Upekkhā è l'equanimità. Il sole è equanime, risplende su tutti senza distinzioni. La terra è equanime: è in grado di ricevere e trasformare sia sostanze pure che sostanze contaminate. Equanimità è lasciare andare attaccamenti, preferenze e avversioni, è la capacità di osservare fatti, persone, situazioni ma anche pensieri, emozioni e sensazioni accogliendoli per quello che sono, senza giudizio. Questo atteggiamento genera una mente di pace, quieta e spaziosa e in questo spazio possiamo essere non reattivi e quindi liberi. Equanimità non è indifferenza, è un guardare dall'alto che permette di cogliere le distinzioni, di discernere con visione e intelligenza senza farsi guidare da attaccamenti e avversioni.

Antonella Nardone
Mindfulness counselor, formatore e docente di Yoga Mindfulness, fondatore e direttore didattico
de Il filo del Sé, della FYM Scuola di formazione insegnanti. Ha ideato, coordina ed è docente
della Scuola di Counseling Yoga Mindfulness.
Dal 2010 è studiosa del pensiero buddhista sia nella tradizione Mahayana che Theravada;
pratica e guida gruppi di meditazione shamatha vipassana.
Ha elaborato un modello di crescita interiore a mediazione corporea, che connette lo Yoga
alla Mindfulness Dharma Oriented.
www.ilfilodelse.it